La svolta avvenne in modo naturale, come girare lo sguardo da destra a sinistra: uno scivolamento fluido e senza ostacoli.
Ineludibile, perché il tempo di accorgermene, ed era già avvenuto nella sua interezza.
Come ebbi modo di ricostruire – e per la conoscenza limitata che ho di me – si trattava di una reazione a uno stato di disagio duraturo, che mi aveva oltremodo usurato i nervi, a mia insaputa.
Non saprei descrivere con esattezza ogni passaggio, so solo che quando misi a fuoco che qualcosa di importante era cambiato dentro di me, stavo percorrendo in macchina via della Montagnola, domandandomi come mai stessi tornando a casa per quella via inusuale. Non era la strada che facevo di solito. Il mio comportamento aveva anticipato la consapevolezza e solo osservando me stessa nel dondolio delle curve dolci ma serrate di quella strada, mi resi conto di quanto avessi bisogno di ossigeno, dopo aver vissuto per tanto tempo in apnea. È quella una zona della città che concede un po’ di verde, un po’ di solitudine, un po’ di divergenza da ciò che è pratico e veloce. Forse era questo ad avermi attirato. Mi sentii subito meglio. Quasi non guardavo la strada, ma il mondo vario e libero che mi veniva offerto dal parabrezza.
Per un’abitudine del pensiero valutai il ritardo che la mia scelta inconsapevole avrebbe provocato: sarei arrivata a casa cinque, forse anche dieci minuti più tardi. L’altra via, sempre ammesso che non vi siano rallentamenti, intoppi, incidenti o lavori in corso, rappresentava comunque la scelta più ragionevole. Ma io avevo appena deciso che non volevo più essere ragionevole. Anzi, riflettei, era forse proprio quello che viene definito “buon senso” ad avermi a lungo intrappolato in relazioni malsane e alienanti compromessi.
Affrontando con elasticità una curva ampia e promettente, avvertii una crescente distanza dal mio ambiente di lavoro, dai giochi di potere, dalle dicerie delle malelingue. A questo era collegato il mio disagio, quello che finalmente identificavo con lucidità. Con la mia sicumera avevo ritenuto di essere superiore a ogni attacco, forte della mia ragione, ferma su riferimenti indubitabili. Non avevo fatto i conti con la manipolazione e la tendenza al sotterfugio con cui gli attacchi potevano raggiungermi non in pieno petto, ma tra le scapole. Ligia al mio lavoro, io pensavo a dare il meglio di me, testa bassa sul mio dovere, incapace purtroppo di guardarmi intorno, di mettere a fuoco le intenzioni, i pensieri reconditi, le mire. Quanto non sopportavo la mia ingenuità!
Superata quella curva, mi trovai di fronte al dubbio, circa quale fosse la cosa giusta da fare. Per la prima volta si affacciò alla mia mente un’opzione mai considerata prima: il licenziamento. Solo all’idea, fui inondata da un grande senso di libertà e leggerezza. Ancora una volta però intervennero gli automatismi del pensiero: cosa avrebbe significato perdere il lavoro, quali conseguenze, quali alternative? Non ebbi il tempo per darmi delle risposte, perché via della Montagnola era finita e per il tragitto che mi restava ero di nuovo immersa in un traffico anonimo e stanco, del tutto incapace di predispormi alla riflessione.
Il giorno dopo però mi ripromisi di percorrere lo stesso tratto, nutrendo grandi aspettative su quella curva, quella grande, lunga come un abbraccio, saggia come una montagna. L’euforia della libertà del giorno prima si era ormai appropriata di uno spazio proprio, nei recessi del mio petto. Affrontai quella giornata lavorativa e anche le successive nello sforzo di ignorare i sorrisi bugiardi e i falsi interessamenti. Io non mi sentivo più parte di quell’ambiente. Una o due volte provai a dire la mia su questioni controverse, ma l’ostilità nei miei confronti era tale, anche se mascherata dietro maniere correttissime e rispettose delle procedure, che ne uscii sconvolta. Le curve della Montagnola erano diventate una droga, perché lì mi sentivo infine me stessa, svotata dal senso di inadeguatezza e dalla rabbia.
Un giorno poi accadde dell’altro. Mi finì l’occhio su una straduzza che dava su una parte di Ancona a me sconosciuta. D’impulso la imboccai, desiderosa di altre e più coraggiose svolte. A occhio, immaginavo dove sarei sbucata più o meno e mi dissi che, anche se in fondo non sarebbe stata una grande avventura, era una deviazione necessaria dalla mia zona di comfort. A ogni incrocio mi affidai alla prima sensazione di pancia e così mi persi. Altre automobili non c’erano. Dopo qualche giro a vuoto mi affidai al navigatore, che mi tirò fuori dal ginepraio di strade ignote e contorte. Ero euforica e tutt’altro che abbattuta. Ero un’altra persona, libera e irrazionale come non ero mai stata, distante anni luce dai benpensanti e dai loro “è meglio così, è bene colà”. Il perdermi mi diede una gioia acuta e insperata. Era come toccare con mano che si poteva non fare tutto come doveva essere fatto. Anzi, forse era proprio quella la via della felicità. Immaginai, seduta nel sedile del passeggero, la mia capa al lavoro. Patrizia la sevizia. Avrebbe di certo pensato che ero una disadattata, una incapace di tornare a casa propria, una stramba, da cui guardarsi. Credo che la mia gioia in quel frangente fosse legata proprio alla delusione dell’aspettativa di una persona che odiavo. Del giudizio su di me ne risi. Per la prima volta, ne risi.
Un giorno di particolare frustrazione decisi di esplorare ancora, alla cieca. I benefici per la mia autostima erano innegabili. Mi misi a seguire un’altra auto, del tutto a caso, lasciandomi trasportare nell’ignoto. La meta era diventata irrilevante ormai. L’auto che mi faceva strada era una Toyota e mi condusse lungo una salita ripidissima, fino a un tratto sconnesso e buio, decisamente meno rassicurante di via della Montagnola. A destra, oltre le fronde, più in basso, c’erano le luci lontane di via Flaminia. E ancora oltre, il nero del mare. Ero felice, perché avevo appena scoperto un nuovo percorso, intimo e protetto dagli scossoni della vita comune, alla quale non avevo fretta di tornare.
La Toyota rallentò di molto e mise la freccia per accostare. Io la superai. Guardai dallo specchietto retrovisore, come in segno di gratitudine a chi senza saperlo aveva ampliato il mio raggio di esplorazione. Vidi la Toyota rimettersi in moto, come fa chi è infastidito dall’avere un’altra auto alle calcagna e si lascia sorpassare di proposito. Sorrisi tra me, immaginando che il guidatore fosse un mio simile: un po’ misantropo e solitario, desideroso di godersi uno spazio intorno a sé libero da invadenze moleste. Mi affezionai subito e ripetei il suo stesso gioco: accostai, lo lasciai passare per poi ripartire dietro di lui. In questo passaggio ebbi il tempo di mettere a fuoco alcuni dettagli del suo profilo. Era un uomo dai capelli chiari, biondi o forse addirittura bianchi, e ricci, molto ricci. Il viso era lungo e il mento un po’ rientrato. Crebbe in me il desiderio di sapere tutto di lui e continuai a seguirlo.
In assenza di altri dettagli da osservare, mi fissai sulla targa. Anni addietro avevo escogitato un modo per memorizzare le targhe, utilizzando le lettere per comporre parole o frasi. Si ricorda meglio quando si trova un senso compiuto nelle cose. La necessità di memorizzare targhe scaturiva da una disavventura: un pirata era fuggito dopo aver strisciato sulla mia fiancata e io ero rimasta imbambolata a guardarlo allontanarsi senza avere la prontezza di spirito di fissare la sua targa. Decisi che non sarebbe mai più accaduto. Non a me.
GR831FN: questa è facilissima. GiRls just wanna have FuN. 83 è l’anno in cui sono nata e 1 è di tutti i numeri quello più facile da ricordare.
La Toyota mise di nuovo la freccia e si fermò in un piccolo slargo sterrato in cui era parcheggiata un’altra auto. Passai oltre lentamente e vidi che accanto all’altra auto c’era una donna. Mora, bella e slanciata. Di classe. Una degna compagna per il mio caro ricciolino. Sorrisi tra me. Può darsi che stessi immaginando cose infondate, ma mi piaceva farmi la fantasia di una bella coppia, affiatata e sorridente. In quel rapido passaggio cercai di catturare tutti i dettagli possibili di quella scena.
Tornai a casa con tanti pensieri positivi sul loro conto e anche felice di aver scoperto un’altra strada, di cui di sicuro mi sarei servita ancora.
Passarono due giorni credo, quando vidi nel giornale lo stesso viso, magro, sofisticato anche senza trucco, sorridente. Era lei, la donna che attendeva il ricciolino, ed era la protagonista della notizia in prima pagina. Il suo corpo senza vita era stato rinvenuto a casa sua, nella parte di Ancona chiamata “Carmine”. Era proprio la zona in cui due giorni prima l’avevo vista incontrarsi con l’uomo della Toyota. L’articolo diceva che la donna, che si chiamava Melissa P., era stata colpita con dieci fendenti e che la polizia stava battendo tutte le piste, ma la privilegiata era quella sentimentale.
Mi sentii girare il capo, mentre venivo risucchiata all’interno dell’articolo di giornale, protagonista a mia volta di quella terribile notizia. Rilessi più e più volte. Mi sembrava tutto irreale, come un sogno. Fu questa sensazione, credo, a tenermi immobile come in una bolla. Sì, è questa la parola giusta per descrivere come mi sentivo: una bolla fatta di incredulità e riluttanza ad agire, una depersonalizzazione, un’esperienza di distacco da me stessa, come mi osservassi dall’esterno di una boule de neige. Fu bizzarro e abbastanza sconvolgente, ricordo. Accantonai la cosa, come si finisce per fare quando non sappiamo bene come maneggiare i sentimenti singolari da cui ci sentiamo violentemente invasi… finché la bolla esplose.
Avevo infine deciso di licenziarmi, ma prima mi presi tutte le ferie che mi spettavano e per un po’ rimasi tranquilla a badare ai fatti miei. Continuavo a rimuginare sul giorno che finalmente mi sarei liberata del tutto dalla cappa di oppressione in cui mi sentivo prigioniera in ufficio. La bella Melissa P. sparì dai miei pensieri per un po’ mentre la mia testa ruotava furiosamente intorno a Patrizia, la donna ignobile che mi aveva avvelenato la vita negli ultimi tre anni. Mi correggo: la donna a cui io avevo permesso di avvelenarmi la vita.
Poi, come dicevo, la bolla esplose. Ero ancora in ferie, quando una mattina al bar, sorseggiando un tranquillo cappuccino di soia, lessi la notizia di un’altra donna uccisa con dieci fendenti. Sempre dieci. Non era un caso e infatti anche chi aveva scritto l’articolo non mancò di fare il facile collegamento. Il giornalista imprudente già usava il termine “serial killer”. Fu quella locuzione anglosassone che mi aprì gli occhi, pressandomi a fare quello che andava fatto. Mi rimproverai per la codardia del passato, quella che fino a quel momento mi aveva legato in uno stato di pigrizia e immobilità. Questa specie di vigliaccheria che inibisce l’azione è una parte di me che odio. Mai come in quel momento avevo chiare le mie responsabilità personali nelle angherie subite. Era proprio quella sorta di bolla che ho già descritto prima a rendermi passiva, predisponendomi a subire, con conseguenze anche gravi. Quando giunge il momento di agire, bisogna avere il coraggio di farlo: finalmente mi stava diventando sempre più chiaro. Mi si apriva davanti una strada nuova, meravigliosa, eccitante, imprevedibile ed esclusiva. Erano morte due donne. Ve ne sarebbe stata una terza? Forse no. Ricorrendo ai servizi dell’ACI trovai l’indirizzo a partire dalla targa, come già mi era capitato di fare.
Girls just wanna have fun. Già, proprio così.
La mia piccola indagine mi portò a una villetta modesta ma molto graziosa, isolata quanto basta per condurre una vita priva di seccature sebbene non eremitica. Mi rinforzai l’impressione che ebbi una decina di giorni prima: quell’uomo non amava stare coi suoi simili. Un po’ come me. Anche se non proprio proprio come me.
Lui era in casa, a giudicare dalla Toyota parcheggiata. Mi assalirono alcuni dubbi, circa il giusto modo di affrontare questa cosa. Dovevo affidarmi al mio istinto. Dovevo anche stare molto attenta, se non volevo fare una brutta fine. Mi tornarono in mente le parole lette nel giornale: “serial killer”: cercai di imprimerle nella mente, perché mi rendessi ben conto della gravità del momento. L’idea di giocare col fuoco però mi eccitava da morire: era quella la mia nuova vita, quella che aveva fatto capolino la sera che stanca e frustrata percorrevo via della Montagnola. Sentivo fortemente che era così. Eccitazione, imprevisto, adrenalina, ecco quello che volevo davvero. E la libertà di fare quello che molti avrebbero ritenuto insensato fare.
Il crepuscolo stava lasciando il posto a un buio che avanzava con prepotenza. Camminando piano sul terreno erboso feci il giro della casa, sbirciando con prudenza dalle finestre. Non c’erano tende, non servivano in una posizione così scostata dal centro urbano. Le stanze erano tutte illuminate. Lui era solo, in cucina. Lo vidi attraverso i vetri un po’ appannati. Era seduto, con lo sguardo perso nel vuoto e un braccio che ciondolava dal bordo del tavolo.
Cosa avrei dato per poter leggere i suoi pensieri! Scommisi che stava pensando a lei, Melissa. Pensava al suo corpo senza vita. A quelle dieci ferite che gliel’avevano portata via, la vita. Scommisi che vedendo il corpo aveva memorizzato la disposizione di quelle ferite, come per cercare in esse un senso, un significato. Una specie di mappa. Bussai al vetro. Lui alzò lo sguardo e mi vide. Aveva lo sguardo interrogativo di chi non capisce, ma allo stesso tempo rassegnato a qualunque esito. Io andai verso la porta d’ingresso, sicura che sarebbe venuto ad aprirmi. E così fu. Ci capivamo alla perfezione. Ora dovevo giocare bene le mie carte. Una volta esplicitata la verità, sarei stata in una condizione di inferiorità fisica. Questo aspetto mi eccitava da morire, rendendo stimolante la mia attesa impaziente.
Mi fissò senza dire nulla. I suoi capelli brizzolati erano bellissimi. L’espressione del viso però era vuota. Gli occhi privi di interesse erano collocati in un viso ancora più allungato di quanto ricordassi, conferendogli l’aria di un vecchio ronzino triste.
Senza fronzoli, gli spiegai che quella sera io c’ero.
Stavolta non capì al volo. Glielo dovetti spiegare, che il destino sceglie vie bizzarre per adempiersi, ma la maestria sublime con cui effettua la scelta la possiamo comprendere e ammirare solo a posteriori. Se non avessi sofferto tanto a seguito del mobbing che la mia capa mi stava facendo, io non sarei stata lì in quel frangente fatidico. Idem se avessi avuto a disposizione altri metodi per rilassarmi, ritrovare l’equilibrio, rimettere a fuoco me stessa. Invece imboccai quella strada impensata, senza che io stessa potessi spiegare come fosse accaduto, quella via di libertà e appagamento, alla quale non avrei più rinunciato.
E quella sera ero lì, e li ho visto tutti e due. Gli chiesi se la polizia era già risalita a lui. In effetti ignoravo se lui fosse un amante segreto o una frequentazione alla luce del sole. Di sicuro si amavano. E di sicuro tra di loro c’era un legame speciale, segreto e inspiegato agli altri. L’ho capito con un colpo d’occhio, dalla loro postura morbida, l’uno di fronte all’altra. L’atteggiamento di chi è finalmente “a casa”. Quanto avrei voluto sentirmi anch’io una volta così. A casa. Invece nella vita avevo incontrato solo chi si era approfittato della mia buona fede e del mio impegno nelle cose. Con un colpo d’occhio avevo colto la loro intimità. Con lo stesso colpo d’occhio avevo memorizzato la targa di Melissa P.
Su quest’ultimo punto, inaspettatamente, lui capì. Gli ci volle un secondo, ma capì. Un moto di ferocia attraversò le sue iridi grigie. Quando la rabbia trae forza dalla disperazione, erompe senza possibilità di mediazioni. Solo un attimo separò quel lampo dal fremito che mosse i muscoli delle sue braccia verso di me. Il muso da cavallo si contrasse in modo orribile, gli occhi furono all’improvviso pieni di odio.
La mia mano però fu più veloce. Il coltello lo colpì una, due, cinque, dieci volte. A caso. Già al secondo fendente cadde a terra, ma io non mi fermai. Avevo già potuto constatare che gli ultimi colpi sono i più gustosi, perché possono essere inferti con una certa calma e presenza a se stessi, una volta che il corpo è esanime, cercando di indovinare il momento esatto dell’ultimo respiro e dell’ultimo pensiero. Un momento, quest’ultimo, particolarmente sublime. Non so come, ma dieci era diventata la mia firma. Può darsi che anche questo non fosse un caso, non so. Erano così tante le cose di cui mi sfuggiva la comprensione, e che riguardavano i miei stessi comportamenti!
Sapete come fa il fiume, quando corrode l’ansa, l’allarga, modificando il suo corso in modo impercettibile fino a un certo punto. Poi all’improvviso accade che la pigra corrosione provochi una repentina frana, che produce un cambiamento ben più visibile, ed ecco che non è più lo stesso fiume di prima. È un fiume con un corso diverso. Così era accaduto a me.
Osservai lo scivolamento del sangue, dapprima irruento, come desideroso di conquistarsi un nuovo corso, poi via via più lento e denso. Lo osservavo invadere il palmo della mia mano, che lasciai aperto accanto allo squarcio sul collo, per accogliere, fornire un nuovo supporto. Ero ipnotizzata dal suo colore. Mi concentrai sulla sensazione tattile, come un lieve solletico caldo, che senza fretta si raffredda e si ferma nel cavo della mano.
Strinsi le dita e vidi il sangue in un nuovo movimento, sgorgare ai lati del pugno e scivolare seguendo le pieghe della mia pelle. È così che inizia una nuova vita. Dalla morte di qualcosa. È una consapevolezza che mi è giunta uccidendo Melissa P. e che si è rinforzata quando feci lo stesso con Patrizia.
Dopo, sentii la tensione della mandibola sciogliersi, le membra diventare molli. Fluide come le curve della Montagnola. Anche l’uomo aveva ormai un corpo flaccido. Il mio era morbido, ma carico di elettricità.
Non faceva una grande differenza, togliere la vita a una donna o a un uomo. Decisi che avrei continuato a esplorare e che mai e poi mai avrei più fatto a meno di questa gioia, ora che l’avevo toccata con mano.
La me ingenua e zelante non c’era più. Era morta.